Renaud: il Gavroche della canzone

A rivista anarchica

anno 35 n. 308
maggio 2005

canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

Renaud
1: il Gavroche della canzone

Ormai 30 anni di fiera attività (considerando la data d’incisione del suo primo LP), fanno del biondino una delle figure più interessanti della canzone poetica francese.

Certo, come tutti coloro che sentono impellente la necessità di continuare, anche dopo i furori della tardadolescenza, a vomitare qualche pensiero sul bruttomuso della realtà, non s’è salvato dal rischio d’apparire controverso e contraddittorio. Il rischio è però accettato in partenza. Il personaggio c’è. Non è un intellettuale, ma non è un uomo dei boschi, un bluesman o un poeta contadino.

È Renaud, il cantore popolare tenero e virulento. È l’uomo che è riuscito a stare in piedi sulle classifiche radiofoniche con versi di un’incontrovertibile radicalità.

Culturalmente Renaud, nato da una famiglia della piccola borghesia ma ancora di provenienza fortemente popolare (prole numerosa, zio minatore nelle cave del nord), diventa uomo sulle barricate del maggio ’68, dove si trova accanto a cinque dei suoi sei fratelli, e dove, appena sedicenne, fonda e organizza alcuni gruppi politico/culturali: il Groupe Gavroche Revolutionaire, prima, e il Groupe Ravachol, poi; sempre su quelle barricate prende immediatamente le distanze dai militanti di ispirazione marxista, riconoscendosi, sulla scorta delle letture di Proudhon, di Bakunin, di Stirner, anarchico.

La rabbiosa delusione che segue la fallita ipotesi di un rapido cambiamento rivoluzionario della società, coincide con l’abbandono degli studi regolari. Affida dunque la sua formazione a qualche anno di peregrinazioni per il mondo (fino al Sudafrica!), alla boheme parigina, agli incontri e alle discussioni. Poi, ancor giovane e timidissimo, comincia la sua gavetta nel mondo dei professionisti della canzone.

La carriera di Renaud segue un evolversi, forse non sempre coerente, ma senz’altro molto umano e comprensibile, in fasi successive, che tenteremo di analizzare utilizzando l’unico documento veramente atto allo scopo: la stretta successione cronologica della sua discografia.

Gavroche

Il 1975 consegna ai banconi dei negozi musicali francesi un LP fresco di stampa: sulla copertina campeggia in primissimo piano la faccia di un adolescente biondo, con uno sguardo fra il sarcastico e l’aggressivo, che fa contrasto con l’apparenza da cherubino.

La tenuta – al limite della mascherata e del ridicolo – è da perfetto Gavroche: così solevano essere affettuosamente chiamati (in riferimento a un personaggio dei Miserabili di Victor Hugo) gli appartenenti a quell’esercito di ragazzini sottoproletari, che a Parigi avevano animato le barricate di ogni tentativo rivoluzionario, ultimo (?) dei quali proprio il Mai ’68.

Al, già mitico, maggio molte tracce del disco si richiamano esplicitamente, e il “mese del mughetto” rimarrà, sullo sfondo come un passato mitico, in tutta la produzione successiva dell’autore. Il disco denuncia tutti i difetti dell’opera prima, soprattutto per quanto riguarda gli arrangiamenti a volte di una misera sobrietà, improvvisamente poi gonfiati da interventi pseudo-orchestrali del tutto inutili, probabilmente guidati dal doppio condizionamento di un budget bassissimo e dell’inesperienza dell’autore, magari affidato a un mestierante dell’arrangiamento dalla casa discografica. La voce, poi, carica di inflessioni tipiche della banlieu (l’estrema periferia parigina), non perfettamente intonata e un po’ lagnosa, non ha ancora imparato a trasformare in caratteristiche i propri difetti; le canzoni sono uno strano mescolio di militanza, sarcasmo grandguignolesco, populismo primo novecento e nonsense: non c’è bisogno di aggiungere che non si tratta di capolavori! Una traccia del disco porta il significativo titolo di “Società, non mi avrai!” (Societé, tu ne m’aurais pas):

C’era Antoine (sic!) prima di me / c’era Dylan prima di lui /…/
Loro li hanno recuperati / quanto a me non mi avranno
Sparerò per primo / mirando giusto /…/
Per cui sta’attenta alla tua pelle / ai tuoi sbirri, al tuo lavoro /
La verità vincerà, l’anarchia rifiorirà /…/
Ho cantato 10, 100 volte /…/ ho urlato su tutti i tetti/
Ciò che pensavo di te / società, società…non mi avrai

…insomma una specie di assegno in bianco di futura coerenza che l’artista firma al suo pubblico, e un primo omaggio (in seguito ne verranno numerosi) al banditismo anarchico gusto Bonnot.

Seguono alcune esercitazioni di stile chanson realiste: canzoni sulla carriera di perfetti delinquenti dalla nascita sul pavé, fino all’inevitabile epilogo sulla ghigliottina; c’è una sarcastica e digrignante “Compagno borghese” (Camarade bourgeois) e qualche più stravagante che originale canzone d’amore; la title track è una simpatica canzone contro l’ecologia scoutistica e che dichiara tutto l’amore del nostro per Parigi e i suoi sobborghi (Amoureux de Paname).

Ma in questo disco, fin qui trascurabile, c’è anche un miracolo: L’Hexagone (“L’esagono”, o, fuor di metafora, La Francia). L’Hexagone è la prima prova di un grande autore che si rivela: un capolavoro di struttura e significato, in cui, calendario alla mano, i vizi privati e pubblici orrori dei francesi grandi, medi e piccoli vengono passati al vetriolo da una coscienza critica irridente, partecipe e indignata; qui la cronaca diventa analisi sociale, la risata non si fa consolatorio sfottò, ma è usata come un accetta che scava sotto il piedistallo del potere e dell’idiozia capillare. Scandita come un recitativo (una specie di rap ante litteram) su un ritmo irresistibile, curata nella metrica e negli accenti, L’hexagone resta a tutt’oggi una delle più riuscite opere dell’autore, conosciuta anche dalle più giovani generazioni e immancabilmente richiesta a gran voce ad ogni concerto.

Il secondo disco Laisse Beton (1977) mostra i segni di una progressiva maturazione, che senza fornire ancora il frutto di un album perfetto, compie un notevole passo in avanti. I panni di Gavroche sono abbandonati per quelli più moderni, ma nello spirito analoghi, del Loubard: il delinquentello della periferia, l’individualista antisociale che ha sviluppato un suo duro codice di comportamento per non essere sopraffatto, in mancanza di altre armi culturali, dalla massificazione distruttiva dell’ operaio/schiavo organizzato della moderna società capitalistica. Il loubard, che aveva conosciuto il suo antieroe di riferimento nel James Dean protagonista di Gioventù bruciata, e in Inghilterra troverà di lì a poco la sua espressione più estrema nel movimento cosiddetto Punk, resterà a lungo uno dei riferimenti di Renaud, che in seguito adatterà anche gli arrangiamenti delle sue canzoni, che nascono “povere” armonicamente, anche se indiscutibilmente piacevoli, e infarcite di musette (il valzerino cantabile), a un gusto più duro, con strumenti elettrici, quasi un compromesso col rock, germinando un interessante contaminazione. Parecchi i brani interessanti: La chanson du Loubard esplicita quel passaggio da un populismo di maniera a uno più significativo e contemporaneo di cui dicevamo sopra, Laisse Beton e Je souis une bande de jeunes percorrono la stessa strada, ma sul versante dell’opera buffa piuttosto che del melodramma, evidenziando peraltro un bel talento nel reinventare e modernizzare l’argot, a volte con trovate lessicali e invenzioni idiomatiche fenomenali; comincia in queste raffinatezze formali ad essere percepibile il debito contratto verso quello che a buona ragione può essere definito il solo vero maestro di Renaud: Georges Brassens. Anche in questo disco non manca un vero capolavoro: Le Charognards. Ispirata a un fatto di cronaca, cui Renaud aveva assistito in prima persona: l’uccisione a sangue freddo da parte dei poliziotti di due giovani rapinatori sorpresi con le proverbiali mani nel sacco, la canzone si sviluppa in soggettiva dal punto di vista del bandito agonizzante che coglie attorno a se i commenti malevoli dei passanti radunatisi ad assistere a quell’atto di giustizia sommaria, ne emerge un racconto secco, in cui la brutalità dei poliziotti e la stupidità della folla sono messe a confronto, e lasciate parlare da sé; una composizione impietosa e finalmente non patetica.

Renaud

Ma gonzesse (1979) mostra il segno della necessità di ampliare i propri temi, fors’anche per timore di una cristallizzazione nel ruolo di portaparola anarco-loubard, proponendo originali canzoni d’amore o esistenziali, affermando una voglia di paternità (Chanson pour Pierrot) che annuncia un tema che diverrà carissimo all’autore di lì a qualche anno, proseguendo, insomma, sulla strada della crescita stilistica, la rincorsa che porterà al balzo compiuto col quarto disco.

Intanto col, già considerevole, bagaglio di canzoni accumulato, Renaud accede al Bobino di Parigi, teatro mitico per gli artisti francesi (quello preferito da Brassens, ma anche palco di fondamentali esibizioni di Léo Férre, di Pierre Perret , di Barbara, di Guy Beart, di Gilles Vigneault, ecc…), e chiaro segnale di una repentina crescita di consensi, che presto sarà confermata dall’apertura delle porte del teatro francese di varietà più famoso del mondo: l’Olympia. A Bobino Renaud porta uno spettacolo molto interessante, integralmente documentato da due dischi separati: Le p’tit bal du samedi soir (registrato durante la prima parte della serata) contiene interpretazioni di una serie di canzoni Belle Epoque (vi abbondano quelle del truculento repertorio di Frehel), del genere cosiddetto Realiste, splendidamente accompagnate da un gruppo di specialisti della valse musette, introdotte da un geniale monologo di Aristide Bruant (Le Lezard), di cui viene eseguita anche la più che sublime Rose Blanche (nota anche come Rue Saint Vincent, e di cui già lungamente parlammo nell’articolo dedicato all’autore). Non manca uno dei pezzi più noti del repertorio militante pacifista francese La boutte rouge di Montheus. Ovviamente tali canzoni sono affrontate per sottolineare il legame ideale con la tradizione popolare francese, non a caso Renaud, anche in funzione antintelletualistica, non sceglie di interpretare le composizioni, a lui pur così vicine, dei grandi autori, ma quelle passate quasi anonime nella memoria collettiva.

Renaud a Bobino (registrato durante la seconda parte del medesimo spettacolo) riunisce invece tutto ciò che di buono il cantante ha scritto fino ad allora, assumendo così carattere di consuntivo di questa prima parte della sua carriera; vi si ritrovano canzoni quali Les CharognardHexagoneChanson pour Pierrot, ecc… con arrangiamenti decisamente più aggressivi e gradevoli delle versioni studio, cantate con grinta di fronte a un pubblico partecipe e attento, di modo che, nonostante un equilibrio musicale precario (alcuni strumenti ora sovrastano ora scompaiono, i suoni sono piuttosto acidi e poco equalizzati) scopriamo per la prima volta un interprete che non riferisce piattamente le proprie canzoni, ma le carica di tutta la personalità di una voce dai mezzi estremamente limitati, ma caratteristicamente espressiva. La tempra dell’artista a questo punto appare rivelata. Il trionfo definitivo non tarda.

(à suivre)

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it


Traduction française par Google

Renaud : Le Gavroche de la chanson

Un magazine anarchiste

Année 35, n° 308
Mai 2005

Chanson d’auteur

Par Alessio Lega

Renaud
1 : Le Gavroche de la chanson

Aujourd’hui 30 ans d’activité fière (compte tenu de la date d’enregistrement de son premier LP), font du blond l’une des figures les plus intéressantes de la chanson poétique française.

Bien sûr, comme tous ceux qui ressentent le besoin urgent de continuer, même après la fureur de la fin de l’adolescence, à vomir quelques réflexions sur la laideur de la réalité, il ne s’est pas épargné du risque de paraître controversé et contradictoire. Cependant, le risque est accepté d’emblée. Le personnage est là. Ce n’est pas un intellectuel, mais ce n’est pas un homme des bois, un bluesman ou un poète paysan.

C’est Renaud, le chanteur folk tendre et virulent. C’est l’homme qui a réussi à se hisser dans les charts radio avec des couplets d’un radicalisme incontestable.

Culturellement, Renaud, né dans une famille de la petite bourgeoisie mais encore fortement issu de la classe ouvrière (nombreuse descendance, oncle mineur dans les mines du nord), devient un homme sur les barricades de Mai 68, où il se retrouve aux côtés de cinq de ses six frères, et où, à seize ans, il fonde et organise des groupes politico-culturels : le Groupe Gavroche Révolutionnaire, d’abord, puis Groupe Ravachol. D’autre part, il s’est immédiatement distancié des militants d’inspiration marxiste, reconnaissant, sur la base de ses lectures de Proudhon, Bakounine et Stirner, un anarchiste.

La déception furieuse qui suit l’hypothèse ratée d’un changement révolutionnaire rapide dans la société coïncide avec l’abandon des études régulières. Il confie donc sa formation à quelques années d’errances à travers le monde (jusqu’en Afrique du Sud !), à la bohème parisienne, à des rencontres et des discussions. Puis, encore jeune et très timide, il commence son apprentissage dans le monde de la chanson professionnelle.

La carrière de Renaud suit une évolution, peut-être pas toujours cohérente, mais certainement très humaine et compréhensible, par phases successives, que nous tenterons d’analyser à l’aide du seul document réellement adapté à cet effet : la stricte succession chronologique de sa discographie.

Gavroche

En 1975, il livre un LP fraîchement imprimé aux comptoirs des magasins de musique français : sur la pochette se détache au premier plan le visage d’une adolescente blonde, au regard entre sarcastique et agressif, qui contraste avec l’apparence d’un chérubin.

La tenue – à la limite de la mascarade et du ridicule – est celle d’un parfait Gavroche : c’est ainsi que l’on appelait affectueusement les membres de cette armée de gamins de la classe inférieure, qui à Paris avaient animé les barricades de toutes les tentatives révolutionnaires, dont la dernière ( ?) était Mai ’68 (en référence à un personnage des Misérables de Victor Hugo).

Au mois de mai déjà mythique, de nombreux morceaux de l’album sont explicitement rappelés, et le « mois du muguet » restera, en arrière-plan comme un passé mythique, dans toute la production ultérieure de l’auteur. L’album dénonce tous les défauts de la première œuvre, notamment en ce qui concerne les arrangements, parfois d’une misérable sobriété, soudain puis gonflés par des interventions pseudo-orchestrales complètement inutiles, probablement motivées par le double conditionnement d’un très petit budget et d’une inexpérience peut-être confié à un artisan de la maison de disques. La voix, donc, pleine d’inflexions typiques des banlieues, pas parfaitement accordée et un peu pleurnicharde, n’a pas encore appris à transformer ses défauts en caractéristiques. Les chansons sont un étrange mélange de militantisme, de sarcasme grand-guignolesque, de populisme du début du XXe siècle et de non-sens : inutile d’ajouter qu’elles ne sont pas des chefs-d’œuvre ! Un morceau de l’album porte le titre significatif de « Société, tu m’aurais pas ! » :

Y’a eu Antoine avant moi / y’a eu Dylan avant lui /…/
On les a récupérés / oui, mais moi on m’aura pas
Je tirerai le premier / et j’viserai au bon endroit /…/
Demain, prends garde à ta peau / à ton fric, à ton boulot /
Car la vérité vaincra, la Commune refleurira /…/
J’ai chanté 10 fois, 100 fois /…/ j’ai crié sur tous les toits /
Ce que je pensais de toi / société, société… tu m’auras pas

… bref, une sorte de chèque en blanc de cohérence future que l’artiste signe à son public, et un premier hommage (beaucoup s’ajouteront plus tard) au banditisme anarchiste de Bonnot.

S’ensuivent quelques exercices dans le style des chansons réalistes : des chansons sur la carrière de parfaits délinquants depuis leur naissance sur les pavés, jusqu’à l’inévitable épilogue sur la guillotine ; il y a un « Camarade bourgeois » sarcastique et grinçant et d’autres plus extravagants que les chansons d’amour originales ; la chanson-titre est une belle chanson contre l’écologie scoute et qui déclare tout l’amour de notre homme pour Paris et sa banlieue (Amoureux de Paname).

Mais dans ce disque, jusqu’ici négligeable, il y a aussi un miracle : Hexagone ou, métaphore mise à part, la France. Hexagone est la première preuve d’un grand auteur qui se révèle : un chef-d’œuvre de structure et de sens, dans lequel, calendrier en main, les vices privés et les horreurs publiques des grands, moyens et petits Français sont passés au vitriol par une conscience critique moqueuse, participative et indignée. Ici l’actualité devient analyse sociale, le rire ne devient pas une moquerie consolante, mais il est utilisé comme une hache de guerre creusant sous le piédestal du pouvoir et de l’idiotie capillaire. Ponctué comme un récitatif (une sorte de rap ante litteram) sur un rythme irrésistible, avec une attention à la métrique et aux accents, Hexagone reste à ce jour l’une des œuvres les plus réussies de l’auteur, connue même des jeunes générations et invariablement demandée bruyamment à chaque concert.

Le deuxième album Laisse Béton (1977) montre les signes d’une maturation progressive, qui sans encore fournir le fruit d’un album parfait, fait un pas en avant significatif. Les vêtements de Gavroche sont délaissés pour les vêtements plus modernes, mais dans l’esprit similaire, des Loubard : le délinquant de la périphérie, l’individualiste antisocial qui a développé son propre code de conduite sévère afin de ne pas être submergé, en l’absence d’autres armes culturelles, par la massification destructrice du travailleur/esclave organisé de la société capitaliste moderne. Le loubard, qui avait rencontré son anti-héros de référence en James Dean, protagoniste de Rebel Without a Cause, et qui en Angleterre trouvera bientôt son expression la plus extrême dans le mouvement dit Punk, restera longtemps l’une des références de Renaud, qui adaptera plus tard également les arrangements de ses chansons, qui naissent « pauvres » harmoniquement, même si incontestablement agréable, et bourré de musette (la valse cantabile), à un goût plus dur, avec des instruments électriques, presque un compromis avec le rock, faisant germer une contamination intéressante. Il y a plusieurs pièces intéressantes : La chanson du Loubard rend explicite ce passage d’un populisme de manière à un populisme plus significatif et contemporain dont nous avons parlé plus haut, Laisse Béton et Je suis une bande de jeunes suivent le même chemin, mais du côté de l’opéra bouffe plutôt que du mélodrame, faisant également preuve d’un grand talent pour réinventer et moderniser l’argot, parfois avec des gadgets lexicaux et des inventions idiomatiques phénoménales ; Dans ces raffinements formels, la dette contractée envers celui que l’on peut appeler à juste titre le seul véritable maître de Renaud, Georges Brassens, commence à être perçue. Cet album contient également un véritable chef-d’œuvre : Les Charognards. Inspirée d’un fait divers dont Renaud avait été témoin : le meurtre de sang-froid par des policiers de deux jeunes voleurs pris les mains dans le sac, la chanson se développe en subjectif du point de vue du bandit mourant qui attrape autour de lui les commentaires malveillants des passants rassemblés pour assister à cet acte de justice sommaire, ce qui émerge est un conte sec, dans lequel la brutalité des policiers et la stupidité de la foule sont comparées et laissées parler d’elles-mêmes. Une composition impitoyable et finalement pas pathétique.

Renaud

Ma Gonzesse (1979) montre le signe de la nécessité d’élargir ses thèmes, peut-être aussi par crainte d’une cristallisation dans le rôle de porte-parole anarcho-loubard, proposant des chansons d’amour originales ou existentielles, affirmant un désir de paternité (Chanson pour Pierrot) qui annonce un thème qui deviendra très cher à l’auteur quelques années plus tard, continuant, en somme, sur la voie de la croissance stylistique, la course qui mènera au saut effectué avec le quatrième disque.

Pendant ce temps, avec le bagage déjà considérable de chansons accumulées, Renaud entre au Bobino à Paris, théâtre mythique pour les artistes français (celui préféré de Brassens, mais aussi la scène des performances fondamentales de Léo Ferré, Pierre Perret, Barbara, Guy Béart, Gilles Vigneault, etc.), et signe clair d’une croissance soudaine du consensus, qui sera bientôt confirmée par l’ouverture des portes du théâtre de variétés français le plus célèbre au monde : l’Olympia. Renaud apporte un spectacle très intéressant à Bobino, entièrement documenté par deux disques distincts : Le p’tit bal du samedi soir (enregistré en première partie de soirée) contient des interprétations d’une série de chansons de la Belle Époque (celles du répertoire truculent de Fréhel abondent), du genre dit Réaliste, magnifiquement accompagnées par un groupe de spécialistes de la valse musette, introduit par un brillant monologue d’Aristide Bruant (Le Lézard), dont est également jouée la plus que sublime Rose Blanche (dite aussi Rue Saint Vincent, et dont nous avons déjà longuement parlé dans l’article consacré à l’auteur). On y trouve également l’une des pièces les plus connues du répertoire militant pacifiste français : La butte rouge de Monthéus. Ce n’est pas un hasard si Renaud, lui aussi dans une fonction anti-intellectuelle, ne choisit pas d’interpréter les compositions, pourtant si proches de lui, des grands auteurs, mais celles passées presque anonymes dans la mémoire collective.

Renaud à Bobino (enregistré lors de la deuxième partie du même spectacle) rassemble toutes les bonnes choses que le chanteur avait écrites jusque-là, prenant ainsi le caractère d’un dernier équilibre de cette première partie de sa carrière ; il y a des chansons comme Les Charognard, Hexagone, Chanson pour Pierrot, etc. avec des arrangements décidément plus agressifs et agréables que les versions studio, chantés avec détermination devant un public participatif et attentif, de sorte que, malgré un équilibre musical précaire (certains instruments désormais dominent maintenant disparaissent, les sons sont plutôt acides et mal égalisés) on découvre pour la première fois un interprète qui ne rend pas compte de ses chansons de manière plate, mais elle leur donne toute la personnalité d’une voix aux moyens extrêmement limités, mais typiquement expressive. Le tempérament de l’artiste à ce stade semble révélé. Le triomphe final ne se fait pas attendre.

(à suivre)

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it

  

Source : Arivista anarchica