Renaud – Il gavroche e la tigna

SguardoMobile

martedì 15 luglio 2003, di Alessio Lega

Il primo periodo (1975-1981) del percorso artistico di uno dei grandi della canzone francese. A differenza della maggior parte degli altri, questo è ancora vivo. E ancora produce capolavori. Come Boucan d’Enfer, uscito l’anno scorso.

Alessio Lega, cantapoeta e storico della canzone d’autore, segue le tappe di una parabola esemplare per coerenza e umanità. Nelle prossime settimane pubblicheremo il seguito di questo studio (in tre parti).
(If)

In oltre 25 anni (considerando la data d’incisione del suo primo LP), una delle figure più interessanti, per quanto a volte controversa e contraddittoria, della canzone poetica francese caratterizzata da una centralità delle tematiche sociali e di rivolta (se pensiamo alla generazione precedente ci vengono in mente i nomi universalmente noti di BrassensBrel e Ferré), è senza alcun dubbio Renaud Sechan, noto semplicemente come Renaud.

Culturalmente Renaud, proveniente da una famiglia della piccola borghesia, ma ancora legata a una serie di clicheés strettamente popolari (famiglia numerosa, con uno zio minatore nelle cave del nord), nasce sulle barricate del maggio ’68, dove si trova accanto a cinque dei suoi sei fratelli, e dove, appena sedicenne, fonda e organizza alcuni gruppi politico-culturali: il Groupe Gavroche Revolutionaire prima e il Gruope Ravachol poi; prende inoltre immediatamente le distanze dai militanti di ispirazione marxista, riconoscendosi, sulla scorta delle letture di Proudhon e di Bakunin, anarchico (il suo testo di maggior riferimento resterà « L’unico e la sua proprietà » di Stirner); segue -con la rabbiosa delusione dell’ipotesi di un rapido cambiamento rivoluzionario della società- l’abbandono degli studi regolari e qualche anno di peregrinazioni e di bohème, fino all’approdo, ancor giovanissimo, prima timido, poi man mano, sempre più affermato, per arrivare al trionfo degli anni ’80, al mondo dei professionisti della canzone.

La carriera di Renaud segue un evolversi, forse non sempre coerente, ma senz’altro molto umano e comprensibile, in fasi successive, che tenteremo di analizzare utilizzando l’unico documento veramente atto allo scopo: la stretta successione cronologica della sua discografia.

GAVROCHE

Il 1975 consegna ai banconi dei negozi musicali francesi una nuova uscita: sulla copertina campeggia in primissimo piano la faccia di un ragazzino biondo, dall’aria ancora perfettamente adolescente, con uno sguardo fra il sarcastico e l’aggressivo, che fa contrasto con l’apparenza da cherubino. La tenuta -al limite del ridicolo- è da perfetto Gavroche: così solevano essere affettuosamente chiamati (in riferimento a un personaggio dei miserabili di Victor Hugo) gli appartenenti a quell’esercito di ragazzini sottoproletari che a Parigi avevano animato le barricate di ogni tentativo rivoluzionario, ultimo dei quali proprio il Mai ’68 cui molte tracce del disco si richiamano esplicitamente e che rimarrà, sullo sfondo come un passato mitico, in tutta la produzione successiva dell’autore. Il disco denuncia tutti i difetti dell’opera prima, soprattutto per quanto riguarda gli arrangiamenti a volte di una misera sobrietà, improvvisamente poi gonfiati da interventi pseudo-orchestrali del tutto inutili, probabilmente guidati dal doppio condizionamento di un budget bassissimo e dell’inesperienza dell’autore, magari affidato a un mestierante dell’arrangiamento dalla casa discografica. La voce, poi, carica di inflessioni tipiche della banlieu (l’estrema periferia parigina), non perfettamente intonata e un po’ lagnosa, non ha ancora imparato a trasformare in caratteristiche i propri difetti; le canzoni sono uno strano mescolio di militanza, sarcasmo grandguignolesco, populismo primo novecentesco e non-senso: non c’è bisogno di aggiungere che non si tratta di capolavori! Una traccia del disco porta il significativo titolo di « Società, non mi avrai! » (Societé, tu ne m’aurais pas.):

« C’era Antoine(sic!) prima di me/c’era Dylan prima di lui/…/loro li hanno recuperati/quanto a me non mi avranno/sparerò per primo/mirando giusto/…/Per cui sta’attenta alla tua pelle/ai tuoi sbirri, al tuo lavoro/la verità vincerà, l’anarchia rifiorirà/…/ho cantato 10, 100 volte/…/ho urlato su tutti i tetti/ciò che pensavo di te/società, società…non mi avrai », una sorta di assegno in bianco di futura coerenza che l’artista firma al suo pubblico, e al contempo un primo omaggio (in seguito ne verranno numerosi) al banditismo anarchico gusto Bonnot.

Seguono alcune esercitazioni di stile chanson realiste: canzoni sulla carriera di perfetti delinquenti (alla Casque d’or per intenderci): dalla nascita sul pavé, fino all’inevitabile epilogo sulla gigliottina; c’è una sarcastica e digrignante « Compagno borghese » (Camarade bourgeois) e qualche più stravagante che originale canzone d’amore, una simpatica canzone contro l’ecologia scoutistica e che dichiara tutto l’amore del nostro per Parigi e i suoi sobborghi (Amoureux de Paname).

Ma in questo disco, fin qui, trascurabile c’è anche un miracolo: L’Hexagone (« L’esagono », o fuor di metafora La Francia). Hexagone è la prima prova di un grande autore che si rivela, un capolavoro di struttura e significato, in cui, calendario alla mano, i vizi privati e publici orrori dei francesi grandi, medi e piccoli vengono passati al vetriolo da una coscienza critica irridente, partecipe e indignata; qui la cronaca diventa critica sociale, la risata non si fà consolatorio sfottò, ma è usata come un accetta che scava sotto il piedistallo del potere e dell’idiozia capillare. Scandita come un recitativo (una specie di RAP ante litteram) su un ritmo irresistibile, curatissima nella metrica e negli accenti, Hexagone resta tutt’oggi una delle più riuscite opere dell’autore, conosciuta anche dalle più giovani generazioni e immancabilmente richiesta a gran voce ad ogni concerto.

Il secondo disco Laisse Beton (1977) mostra i segni di una progressiva maturazione, che senza fornire ancora il frutto di un album perfetto, compie un notevole passo in avanti nell’equilibrio generale dell’opera: i panni di Gavroche sono abbandonati per quelli più moderni, ma nello spirito analoghi, del Loubard: il delinquentello della periferia, l’individualista antisociale che ha sviluppato un suo duro codice di comportamento per non essere sopraffatto, in mancanza di altre armi culturali, dalla massificazione distruttiva dell’ operaio/schiavo organizzato della moderna società capitalistica. Il loubard, che aveva conosciuto il suo antieroe di riferimento nel James Dean protagonista di « Gioventù bruciata », e in Inghilterra troverà di lì a poco la sua espressione più estrema nel movimento cosiddetto Punk (nella versione ruspante, non modaiola), resterà a lungo uno dei riferimenti di Renaud, che in seguito adatterà anche gli arrangiamenti delle sue canzoni, che nascono « povere » armonicamente, anche se indiscutibilmente piacevoli, e infarcite di musette (il valzerino cantabile), a un gusto più duro, con strumenti elettrici, quasi un compromesso col rock, germinando un interessante contaminazione (la cosa sarà molto più esplicita nei concerti, di cui esistono -come vedremo- numerose testimonianze discografiche). Parecchi i brani interessanti: La chanson du Loubard esplicita quel passaggio da un populismo di maniera a uno più significativo e contemporaneo di cui dicevamo sopra, Laisse Beton e Je souis une bande de jeunes percorrono la stessa strada, ma sul versante dell’opera buffa piuttosto che del melodramma, evidenziando peraltro un bel talento nel reinventare e modernizzare l’argot, a volte con trovate lessicali e invenzioni idiomatiche fenomenali; comincia in queste raffinatezze formali ad essere percepibile il debito contratto verso quello che a buon ragione può essere definito il solo vero maestro di Renaud: Georges Brassens. Anche in questo disco non manca un vero capolavoro: Le Charognards; ispirata a un fatto di cronaca a cui Renaud aveva assistito in prima persona, l’uccisione a sangue freddo da parte dei poliziotti di due giovani rapinatori sorpresi con le proverbiali mani nel sacco, la canzone si sviluppa in soggettiva dal punto di vista dell’agonizzante che coglie attorno a se i commenti malevoli dei passanti radunatisi ad assistere a quell’atto di giustizia sommaria, ne emerge un racconto secco, in cui la brutalità dei poliziotti e la stupidità della folla sono messe a confronto, e lasciate parlare da sé, senza ulteriore aggiunta di morali; una composizione impietosa e non patetica, ma per questo profondamente commovente che dopo decine di ascolti non lascia mai indifferenti.

Ma gonzesse (1979) mostra il segno della necessità di ampliare i propi temi, fors’anche per timore di una cristallizzazione nel ruolo di porta-parola anarco-loubard, proponendo originali canzoni d’amore (appunto quella del titolo dell’album) o esistenziali, affermando una voglia di paternità (Chanson puor Pierrot) che annuncia un tema che diverrà carissimo all’autore di lì a qualche anno, proseguendo, insomma, sulla strada della crescita stilistica, la rincorsa che porterà al balzo compiuto col quarto disco.

Intanto col già considerevole bagaglio di canzoni accumulato Renaud accede al Bobino di Parigi, teatro mitico -per i parigini stessi- della canzone francese (quello preferito dal maestro Brassens, ma anche palco di fondamentali esibizioni di Léo Férre -1958 e 1969-, di Pierre Perret -1979-, di Barbara -1968-, di Guy Beart, di Gilles Vigneault, ecc…) chiaro sintomo di una repentina crescita di consensi che presto sarà confermata dall’apertura delle porte del teatro francese di varietà più famoso del mondo: l’Olympia. A Bobino Renaud porta uno spettacolo estremamente interessante, integralmente documentato da due dischi separati: Le p’tit bal du samedi soir (registrato durante la prima parte della serata) contiene interpretazioni di una serie di canzoni Belle Epoque (vi abbondano quelle del truculento repertorio di Frehel), del genere cosiddetto Realiste, splendidamente accompagnate da un gruppo di specialisti della valse musette, introdotte da un geniale monologo di Aristide Bruant (Le Lezard), di cui viene eseguita anche la più che sublime Rose Blanche (nota anche come Rue Saint Vincent), storia di una prostituta adolescente accoltellata dal suo altrettanto giovane Joulos (il magnaccia in argot Montmartrois)
« …La chiamavano Rosa ed era bella/odorava di fiore appena sbocciato/in via Saint Vincent/…/quando la stesero sulla tavole/era tanto bianca/che seppellendola/i becchini dissero che la piccina/era crepata il giorno delle nozze/in via Saint Vincent ». Una vicenda presentata qui in maniera molto toccante; lascia a bocca aperta il pensiero che le prostitute di Brassens, come anche le Bocca di Rosa e le bambine di Via del Campo di De André, abbiano un’antenata di tale levatura (la canzone data attorno al 1885). Non manca neanche uno dei pezzi più noti del repertorio militante pacifista francese La boutte rouge di Montheus. Ovviamente tali canzoni sono affrontate per sottolineare il legame ideale con la tradizione popolare francese; non a caso Renaud, anche in funzione antintelletualistica, non sceglie di interpretare le composizioni, a lui pur così vicine, dei grandi autori, ma quelle passate quasi anonime nella memoria collettiva.

Renaud a Bobino (registrato durante la seconda parte del medesimo spettacolo) riunisce in pratica tutto ciò che di buono il cantante ha prodotto fino ad allora, e alcune delle straordinarie canzoni del disco Marche à l’ombre (uscito immediatamente prima dello spettacolo, cfr. qui di seguito); vi si ritrovano canzoni quali Les Charognard, Hexagone, Chanson pour Pierrot, ecc… con arrangiamenti decisamente più aggressivi e gradevoli delle versioni discografiche, cantate con grinta di fronte a un pubblico partecipe e attento, di modo che, nonostante un equilibrio musicale precario (alcuni strumenti ora sovrastano ora scompaiono, i suoni sono piuttosto acidi e poco equalizzati) scopriamo per la prima volta un interprete che non « riferisce » piattamente le proprie canzoni, ma le carica di tutta la personalità di una voce dai mezzi estremamente limitati, ma caratteristica ed espressiva. La tempra dell’artista, a questo punto, appare rivelata, il trionfo definitivo non tarda.

LA TIGNA

Il successo crescente, l’attenzione sempre più invasiva dei media non producono in Renaud l’immediato ritiro su posizioni più potabili per un pubblico che si prepara a divenir vastissimo. Anzi, esattamente al contrario, almeno in questo primo momento, il biondino lancia sul piatto la sua bomba più cattiva, il suo disco più rivoltoso, e anche, fino a questo punto il suo più bello in studio: Marche a l’ombre (1980). La scrittura è al suo apice; lo standard in seguito resterà alto, ma avrà difficoltà a ritrovare un impatto così dirompente. La canzone che dà il titolo all’album è il remake -più riuscito dell’originale- della Laisse beton del secondo disco, tutta puntata su geniali trovate lessicali, ed è giusto un aperitivo per entrare nell’atmosfera linguistica. La teigne, è un acquerello in cui del Loubard di turno si approfondiscono gli aspetti psicologici e il dolore esistenziale, per carità, sempre con pudore e una sorta di brusco rispetto privo di pietismi, nonostante il commovente finale. « Dove ho cacciato la pistola? » (Où est-ce que j’ai mis mon flingue?) è invece quanto di più velenoso Renaud ci abbia mai ammannito: si parte da una riflessione sulla propria raggiunta celebrità (« …da quando vi vendo anche in TV/ la mia zuppa avvelenata… »), che nulla ha cambiato della virulenza del passato (« …anche gli sbirri mi salutano/e porgono il berretto da firmare/io ci sputo dentro e urlo/che il blue marines mi fa vomitare… »), il bersaglio si rivolge poi alla sinistra parlamentare (« non sarà domani che marcerò/coi coglionazzi verso le urne »), ai radical shick eternamente in manifestazione (« …mai più slogan contro la sbirraglia/ma fucili, pietre, bombe!/Urlare contro la repressione/in corteo per Parigi/mentre i miei amici crepano in prigione/è la buona coscienza degli stronzi… »), per concludere con un richiamo ai maestri della rivolta di sempre e a quelli attuali -facendo nel contempo il verso a Victor Hugo- (« …se un giorno mi trovano faccia a terra/andate a chiedere a Baader/se crepo riverso in un fiume/andate a chiedere a Bonnot… »). Per i benpensanti c’è di che tremare… forse solo il Léo Ferré di Comme une fille aveva osato altrettanto, anche se -pur svettando in qualità poetica e musicale a un livello irraggiungibile- con un linguaggio più immaginifico e letterario. Renaud invece parla con la voce della marmaglia del bar all’angolo, e non consegna a metafore la sua rivolta. Il suo eroe (o antieroe) non può, dopo la delusione sessantottina, essere la massa, ma il singolo deviato di una classe marginale e allo sbando. Baston in questo senso è emblematica e fotografa bene la violenza repressa che germina in un’esistenza che non concede più nessuno spazio e iniziativa al miglioramento della società, per chi deve porsi innanzi tutto il problema dei bisogni primari. E’ una canzone che ha ancora tanto da raccontarci in tempi di sassi dai cavalcavia e giochi mortiferi. Si entra poi in uno dei luoghi mitici dell’universo di Renaud con Mon H.L.M., la casa popolare francese, dove un mondo frastornato e frastagliato, combatte una vera guerra fra poveri di vicini, che, a parte l’acqua alla gola della sopravvivenza quotidiana, null’altro accomuna; la grandezza del cantante è nel tratteggiare ora con umorismo, ora con tenerezza, ora con sarcasmo un intero mondo nei pochi minuti della canzone, offrendo il perfetto spaccato di un vissuto comune talmente familiare ai più, da restare paradossalmente pressocchè sconosciuto. Ricordo ancora Mimì L’Ennui (« Mimì la Noia ») ritratto di una Teen Agers in preda a un’invincibile forma di moderno spleen esistenziale, una noia topica, invincibile, in grado di fagocitare amori, pulsioni speranze e rabbie in una « resa invincibile » (Non ama niente/nemmeno gli amici/che dicono che è stanca/di trascinare la carcassa/in questi luoghi marciti/in questa povera vita senza vita/si annoia Mimì). Con questo ritratto Renaud esce anche dall’ambiente sociale dei miserabili che gli è consono, per attingere a un comportamento non più tipicamente proletario o francese, ma semplicemente universale; questi solo alcuni degli episodi più interessanti di un disco denso, compatto, carico di umori e di humor, e che dunque comincia a segnare per Renaud l’inizio di un travolgente successo, che lo porterà in vetta ad ogni classifica.

Il disco successivo, che già dal titolo (Le retour de Gerard Lambert 1981) rifà il verso ad una delle canzoni più bozzettistiche del precedente, non può che porsi come una continuazione di quello, e, pur non stupendo per novità, ne approfondisce egregiamente i temi già espressi; c’è Banlieu Rouge (« Periferia rossa »), in cui, come ogni volta che racconta una figura marginale, mescolando al cinismo una sorta di brusca tenerezza, attinge al sommo della sua arte: nello specifico si tratta di una vedova di mezz’età sull’orlo della povertà, che ha come unica consolazione la radio, i gatti e i pesci rossi con cui parla e che la notte « sente muoversi » irrequieti, che non nutre speranze e desideri ma solo una sorta di feroce delusione che non riesce a trasformarsi in rabbia, dal momento che « …non crede in se stessa/e non crede agli umani/comunque ha piazzato il buon Dio/sopra il suo letto/a lui crede -forse-/ma non è reciproco/… ». C’è Oskar, stupendo ritratto dello zio minatore nelle cave del nord, emblema del proletario iperpoliticizzato nei ranghi di partito e sindacato, sfruttato e poi gettato via come un limone spremuto dai padroni, ma che conserva una forza interiore con cui attraversa un’esistenza difficile, finche « …non è partito, come dicono i poeti/nè è volato in cielo come dicono i preti/un mattino di dicembre per un cancro imbecille/è morto… », la canzone solitamente priva di fronzoli e artifici retorici, priva di qualsiasi morale da finale di favoletta, si distingue proprio per una sorta di orgoglioso cinismo che le fa raggiungere il fremito di eternità della vita realmente vissuta. La Blanche, con cui si prende posizione in maniera molto dura contro l’eroina, è il resoconto di un dialogo con un vecchio amico divenuto tossicodipendente, condotto sul filo di un’amara, tenera ironia (…pare che la tua ganza/è scappata con la cassa/forse perchè non ti tirava più/vedendole cosce e chiappe/che vuoi che ti dica…/che eri troppo bello per lei/ma no…sto scherzando/non sono crudele…) che vela appena la rabbia lasciata esplodere nel finale (…ma se trovo il tuo spacciatore/devo al suo cuore/due coltellate da parte di un amico/cosa non facile/visto che quest’escremento/non credo che abbia un cuore a portata di mano…).

Stupenda anche la canzone Manu, sorta di dialogo con se stesso – Manuel è il secondo nome di Renaud – sulla fugacità dell’amore, e sulla difficoltà di gestire un cuore in pezzi conciliandolo con un’aspetto da « duro » in giubotto di cuoio e tatuaggi.

Il successo, dicevamo, sempre crescente, porta Renaud a calcare le scene dell’Olympia (spettacolo documentato su disco), e questi lo fa portandoci le canzoni più dure del suo repertorio, aprendo proprio con Ou est que j’ai mis mon flingue?, sparando addosso al pubblico, presumibilmente composto da studenti di sinistra, una violentissima satira sui figli di papà che all’università diventano improvvisamente rivoluzionari, ma, in fondo, studiano come perpetuare una cultura borghese: « studente/peli al mento/…/non sono della tua razza/…/c’è solo la scuola della strada/che m’infanga gli stivali/…/studente di giurisprudenza/ci sono più fascisti nel tuo corso/che in un reggimanto di parà/…/domani verrai/nella tua toga imbrattata di sangue/a far applicare le leggi/che nessuno ha mai votato/…/studente di medicina/ti rompi per sette anni/per diventare mercante di pennicillina/…/la tua medicina è una puttana/e il suo magnaccia è il farmacista/…/la tua cultura ci fa vomitare/studente rispettabile/che ti vedi già dirigente/trascinando nella cartella/la coglionaggine dei tuoi padri… » e così via; gli arrangiamenti, decisamente rockettari (il disco risulta inoltre registrato molto meglio del precedente live), danno a queste strofe un’aria ancor più incanaglita e aggressiva. La fase violenta -diremmo quella più legata al suo passato di militante anarchico- della carriera di Renaud è, anche formalmente, arrivata al suo apice. A questo punto il rischio è quello di trasformarsi nella ripetitiva macchietta del cantautore incazzato, ma vedremo che, senza niente rinnegare, l’ancor giovanissimo Sechan, ha altre freccie al suo arco.


Traduction française par Google

Renaud – Le gavroche et la teigne

SguardoMobile

Mardi 15 juillet 2003, par Alessio Lega

La première période (1975-1981) de la carrière artistique d’un des grands de la chanson française. Contrairement à la plupart des autres, celui-ci est toujours vivant. Et il produit toujours des chefs-d’œuvre. Comme Boucan d’Enfer, sorti l’année dernière.

Alessio Lega, chanteur-poète et historien de la chanson, suit les étapes d’une parabole exemplaire sur la cohérence et l’humanité. Nous publierons dans les prochaines semaines la suite de cette étude (en trois parties). (If)

En plus de 25 ans (compte tenu de la date d’enregistrement de son premier LP), l’une des figures les plus intéressantes, bien que parfois controversée et contradictoire, de la chanson poétique française caractérisée par une centralité de thèmes sociaux et de révolte (si l’on pense à la génération précédente, les noms universellement connus de Brassens, Brel et Ferré viennent à l’esprit), est sans aucun doute Renaud Séchan, dit simplement Renaud.

Culturellement Renaud, issu d’une famille de petite bourgeoisie, mais néanmoins lié à une série de clichés strictement populaires (famille nombreuse, avec un oncle mineur dans les carrières du nord), est né sur les barricades de mai 68, où il se retrouve à côté de cinq de ses six frères, et où, à seulement seize ans, il fonde et organise des groupes politico-culturels : le Groupe Gavroche Révolutionnaire d’abord puis le Groupe Ravachol ; il se démarque aussi immédiatement des militants d’inspiration marxiste, se reconnaissant, sur la base de ses lectures de Proudhon et de Bakounine, comme anarchiste (son principal texte de référence restera « L’Unique et sa propriété » de Stirner) ; suit – avec la déception fâchée de l’hypothèse d’un changement révolutionnaire rapide dans la société – l’abandon des études régulières et quelques années d’errance et de bohème, jusqu’à l’arrivée, encore très jeune, d’abord timide, puis peu à peu, de plus en plus affirmée, de arriver au triomphe des années 80, au monde des professionnels de la chanson.

La carrière de Renaud suit une évolution, peut-être pas toujours cohérente, mais certainement très humaine et compréhensible, par phases successives, que nous tenterons d’analyser à l’aide du seul document véritablement adapté à cet effet : la stricte succession chronologique de sa discographie.

GAVROCHE

La tenue, à la limite du ridicule, est parfaite Gavroche : c’est ainsi qu’on appelait affectueusement les membres de cette armée de gamins sous-prolétaires qui avaient animé les barricades de chaque tentative révolutionnaire à Paris (en référence à un personnage du film de Victor Hugo,  Les Misérables), dont le dernier était Mai 68 auquel de nombreux morceaux de l’album font explicitement référence et qui restera, en arrière-plan comme un passé mythique, tout au long de la production ultérieure de l’auteur. L’album dénonce tous les défauts du premier ouvrage, notamment en ce qui concerne les arrangements qui sont parfois d’une sobriété misérable, soudain ensuite gonflés par des interventions pseudo-orchestrales complètement inutiles, probablement motivées par le double conditionnement d’un budget très réduit et de l’inexpérience du chanteur-auteur, peut-être confié à un artisan de l’arrangement par la maison de disques. La voix donc, pleine d’inflexions typiques du banlieue, pas parfaitement accordée et un peu pleurnicharde, n’a pas encore appris à transformer ses défauts en caractéristiques. Les chansons sont un étrange mélange de militantisme, de sarcasme du Grand Guignol, de populisme du début du XXe siècle et d’absurdités : inutile d’ajouter que ce ne sont pas des chefs-d’œuvre ! Un morceau de l’album porte le titre significatif de « Société, tu m’auras pas ! » (Société, tu ne m’aurais pas.):

« Y’a eu Antoine avant moi / y’a eu Dylan avant lui /…/ On les a récupérés / oui, mais moi on m’aura pas
Je tirerai le premier / et j’viserai au bon endroit /…/ Demain, prends garde à ta peau / à ton fric, à ton boulot / Car la vérité vaincra, la Commune refleurira /…/ J’ai chanté 10 fois, 100 fois /…/ j’ai crié sur tous les toits /
Ce que je pensais de toi / société, société… tu m’auras pas », une sorte de chèque en blanc de cohérence future que l’artiste signe à son public, et en même temps un premier hommage (il y en aura beaucoup plus tard) au banditisme anarchiste à la Bonnot.

Viennent ensuite quelques exercices de style chanson réaliste : chansons sur les carrières de parfaits criminels (à la manière du Casque d’or, pour ainsi dire) : depuis leur naissance sur les pavés jusqu’à l’inévitable épilogue sur le lys ; il y a une « Camarade bourgeois » sarcastique et grinçante et d’autres plus extravagantes que les chansons d’amour originales, une jolie chanson contre l’écologie scoute et qui déclare tout notre amour pour Paris et sa banlieue (Amoureux de Paname).

Mais dans ce disque, jusqu’ici négligeable, il y a aussi un miracle : « Hexagone » (ou métaphoriquement parlant, la France). Hexagone est la première preuve d’un grand auteur qui se révèle, un chef-d’œuvre de structure et de sens, dans lequel, calendrier en main, les vices privés et les horreurs publiques des grands, moyens et petits Français sont passés au vitriol par une conscience critique moqueuse, participative et indignée. Ici, l’information devient une critique sociale, le rire ne devient pas une taquinerie consolatrice, mais est utilisé comme une hache qui enfonce sous le piédestal du pouvoir et de l’idiotie généralisée. Scanné comme un récitatif (sorte de RAP ante litteram) sur un rythme irrésistible, avec une grande attention à la métrique et aux accents, Hexagone reste toujours l’une des œuvres les plus réussies de l’auteur, connue même des jeunes générations et invariablement réclamée à haute voix à chaque concert.

Le deuxième album Laisse Béton (1977) montre les signes d’une maturation progressive, qui sans encore donner le fruit d’un album parfait, fait un pas en avant notable dans l’équilibre général de l’œuvre. Le rôle de Gavroche est abandonné au profit du rôle plus moderne, mais similaire dans l’esprit, de Loubard : le délinquant de banlieue, l’individualiste antisocial qui a développé son propre code de comportement dur pour ne pas se laisser submerger, en l’absence d’autres armes culturelles, par des lois destructrices. massification du travailleur/esclave organisé de la société capitaliste moderne. Loubard, qui avait rencontré son anti-héros de référence en la personne de James Dean, protagoniste de « Rebel Without a Cause », trouvera bientôt en Angleterre son expression la plus extrême dans le mouvement dit Punk (dans le style libre et non- version à la mode), restera longtemps une des références de Renaud, qui adaptera plus tard aussi les arrangements de ses chansons, nées « pauvres » harmoniquement, même si incontestablement agréables, et remplies de musettes (la valse cantabile), à ​​un goût plus dur, avec des instruments électriques, presque un compromis avec le rock, en germe une contamination intéressante (cela sera beaucoup plus explicite dans les concerts, dont il existe – comme nous le verrons – de nombreux enregistrements). Il existe plusieurs pièces intéressantes : La chanson du Loubard explique ce passage d’un populisme de manière à un populisme de manière plus significatif et contemporain que nous évoquions plus haut, Laisse Béton et Je suis une bande de jeunes suivent le même chemin, mais du côté du comique opéra plutôt que mélodrame, mettant également en avant un grand talent pour réinventer et moderniser l’argot, parfois avec des gimmicks lexicaux et des inventions idiomatiques phénoménales. Dans ces raffinements formels, la dette envers celui que l’on peut à juste titre définir comme le seul véritable maître de Renaud : Georges Brassens, commence à être perceptible. Sur cet album également, un véritable chef-d’œuvre ne manque pas : Les Charognards. Inspirée d’un fait divers dont Renaud a été témoin, l’assassinat de sang-froid par la police de deux jeunes braqueurs pris en flagrant délit, la chanson se développe subjectivement du point de vue du mourant qui entend autour de lui les propos malveillants des passants -par ceux qui se sont rassemblés pour assister à cet acte de justice sommaire, une histoire aride surgit, dans laquelle la brutalité des policiers et la stupidité de la foule sont comparées et laissées parler d’elles-mêmes, sans autre ajout de morale ; une composition impitoyable et non pathétique, mais pour cela profondément émouvante qui après des dizaines d’écoutes ne laisse jamais indifférent.

Ma Gonzesse (1979) montre le signe de la nécessité d’élargir ses thématiques, peut-être aussi par crainte d’une cristallisation dans le rôle de porte-parole anarcho-loubard, proposant des chansons d’amour originales (celle justement du titre de l’album) ou existentielles, affirmant un désir de paternité (Chanson pour Pierrot) qui annonce un thème qui deviendra très cher à l’auteur dans quelques années, poursuivant, en somme, sur le chemin de l’évolution stylistique, l’élan qui mènera au saut franchi avec le quatrième album.

Pendant ce temps, fort de la richesse déjà considérable de chansons qu’il a accumulée, Renaud entre au Bobino à Paris, le théâtre mythique – pour les Parisiens eux-mêmes – de la chanson française (celui préféré du maestro Brassens, mais aussi scène des performances fondamentales de Léo Ferré -1958 et 1969-, de Pierre Perret -1979-, Barbara -1968-, Guy Béart, Gilles Vigneault, etc…) symptôme évident d’une brusque montée en puissance du consensus qui sera bientôt confirmée par l’ouverture des portes du plus célèbre théâtre de variétés français au monde : l’Olympia. Renaud apporte à Bobino un spectacle extrêmement intéressant, entièrement documenté sur deux disques distincts : Le p’tit bal du samedi soir (enregistré en première partie de soirée) contient des interprétations d’une série de chansons de la Belle Époque (il y en a beaucoup de celles de le répertoire truculent de Fréhel), du genre dit Réaliste, magnifiquement accompagné par un groupe de spécialistes de la valse musette, introduit par un brillant monologue d’Aristide Bruant (Le Lézard), dont la plus que sublime Rose Blanche (aussi connue sous le nom de Rue Saint Vincent) est également interprétée , histoire d’une adolescente prostituée poignardée par son tout aussi jeune Joulos (le proxénète en argot Montmartrois) :

« On l’appelait rose, elle était belle / a’ sentait bon la fleur nouvelle / rue Saint-Vincent /…/ Quand ils l’ont couché sur la planche / elle était toute blanche / même qu’en l’ensevelissant / les croque-morts disaient qu’la pauv’ gosse / était crevé l’soir de sa noce / rue Saint-Vincent. » Une histoire présentée ici de manière très touchante. L’idée que les prostituées de Brassens, ainsi que la Bocca di Rosa et les filles de la Via del Campo de De André, aient un ancêtre d’une telle stature (la chanson date d’environ 1885) laisse sans voix. Il ne manque pas même un des morceaux les plus connus du répertoire militant pacifiste français, La butte rouge de Montéhus. Ces chansons visent évidemment à souligner le lien idéal avec la tradition populaire française ; ce n’est pas un hasard si Renaud, également dans une fonction anti-intellectualiste, choisit d’interpréter non pas les compositions, bien que si proches de lui, des grands auteurs, mais celles qui sont passées presque anonymement dans la mémoire collective.

Renaud à Bobino (enregistré lors de la deuxième partie du même spectacle) rassemble pratiquement tout ce que le chanteur avait produit de bon jusqu’alors, et quelques-unes des chansons extraordinaires de l’album Marche à l’ombre (sorti juste avant le spectacle, voir ci-dessous). Il y a des chansons comme Les Charognard, Hexagone, Chanson pour Pierrot, etc. aux arrangements décidément plus agressifs et agréables que les versions disques, chantées avec détermination devant un public participant et attentif, pour que, malgré un équilibre musical précaire (certains instruments tantôt dominent tantôt disparaissent, les sons sont plutôt acides et mal égalisés) on découvre pour la première fois un interprète qui ne « rapporte » pas catégoriquement ses chansons, mais les charge de toute la personnalité d’une voix aux moyens extrêmement limités , mais caractéristique et expressif. C’est alors que le courage de l’artiste apparaît révélé et le triomphe définitif ne se fait pas attendre.

Le succès grandissant, l’attention de plus en plus envahissante des médias n’amènent pas Renaud à se replier immédiatement sur des positions plus potables pour un public qui s’apprête à devenir très vaste. En effet, exactement le contraire, du moins dans ce premier instant, le blond jette dans l’assiette sa bombe la plus méchante, son album le plus rebelle, et aussi, jusqu’à présent, son meilleur en studio : Marche à l’ombre (1980). L’écriture est à son apogée ; le standard restera ensuite élevé, mais il aura du mal à retrouver un tel impact disruptif. La chanson qui donne son titre à l’album est le remake – plus réussi que l’original – du Laisse béton du deuxième album, le tout axé sur d’ingénieux gimmicks lexicaux, et n’est qu’un apéritif pour entrer dans l’ambiance linguistique. La teigne est une aquarelle dans laquelle les aspects psychologiques et la douleur existentielle du Loubard actuel sont explorés, bon Dieu, toujours avec pudeur et une sorte de respect abrupt et dénué de piétisme, malgré une fin émouvante. « Où c’est qu’j’ai mis mon flingue ? » est au contraire la chose la plus venimeuse que Renaud nous ait jamais apprise : on part d’une réflexion sur sa propre célébrité acquise (« Qu’on voit ma tronche à la télé / Où j’vends ma soupe empoisonnée… »), qui n’a rien changé à la virulence du passé («… Y’a même des flics qui me saluent / Qui veulent que j’signe dans leurs calots / Moi, j’crache dedans, et j’crie bien haut / Qu’le bleu marine me fait gerber… »), la cible se tourne alors vers la gauche parlementaire (« C’est pas d’main qu’on m’verra marcher / Avec les connards qui vont aux urnes »), vers les connards radicaux qui manifestent éternellement (« …Plus de slogans face aux flicards / Mais les fusils, des pavés, des grenades ! / Gueuler contre la répression en défilant « Bastille-Nation » /Quand mes frangins crèvent en prison / Ça donne une bonne conscience aux cons… »), pour conclure par une référence aux maîtres de la révolte de tous les temps et à ceux d’aujourd’hui – en imitant en même temps Victor Hugo – (« …Si un jour j’me r’trouve la gueule par terre / Sûr qu’ça s’ra d’la faute à Baader. / Si j’crève le nez dans le ruisseau / Sûr qu’ça s’ra d’la faute à Bonnot…. »). Pour les gens bien-pensants, il y a de quoi trembler… peut-être que seul Léo Ferré de Comme une fille avait osé autant, même si – malgré une ascension poétique et musicale à un niveau inaccessible – avec un langage plus imaginatif et littéraire. Renaud, lui, parle avec la voix de la populace du bar du coin, et ne confie pas sa révolte aux métaphores. Son héros (ou anti-héros) ne peut pas, après la déception de 1968, être les masses, mais l’individu déviant d’une classe marginale et à la dérive. En ce sens, Baston est emblématique et photographie bien la violence réprimée qui germe dans une existence qui ne laisse plus aucun espace ni initiative pour l’amélioration de la société, pour ceux qui doivent mettre au premier plan le problème des besoins primaires. C’est une chanson qui a encore beaucoup à nous dire à l’époque des pierres des viaducs et des jeux meurtriers. On entre alors dans l’un des lieux mythiques de l’univers de Renaud avec Mon H.L.M., la maison du conseil français, où un monde hébété et déchiqueté mène une véritable guerre entre voisins pauvres, qui, à part l’eau dans la gorge du quotidien, ne peuvent rien avoir d’autre en commun. La grandeur du chanteur est de décrire tantôt avec humour, tantôt avec tendresse, tantôt avec sarcasme tout un monde dans les quelques minutes de la chanson, offrant un aperçu parfait d’une expérience commune si familière au plus grand nombre, qu’elle reste paradoxalement presque méconnue. Je me souviens encore de Mimi L’Ennui, portrait d’un teenager en proie à une forme invincible de spleen existentiel moderne, un ennui actuel, invincible, capable d’engloutir les amours, les pulsions, les espoirs et la colère dans un « abandon invincible » (Elle aime rien, même pas les copains / Pis elle dit qu’elle est lasse de traîner sa carcasse / dans c’pauvr’ monde tout gris / dans cette pauvr’ vie sans vie / Elle s’ennuie Mimi). Avec ce portrait, Renaud sort aussi du milieu social des misérables qui lui convient, pour s’appuyer sur des comportements qui ne sont plus typiquement prolétaires ou français, mais simplement universels ; ce ne sont là que quelques-uns des épisodes les plus intéressants d’un album dense, compact, plein d’ambiances et d’humour, et qui commence donc à marquer le début d’un succès retentissant pour Renaud, qui le propulsera au sommet de tous les charts.

L’album suivant, qui dès le titre (Le retour de Gérard Lambert 1981) fait référence à l’une des chansons les plus sketches du précédent, ne peut être vu que comme une continuation de celui-ci et, bien que n’étonnant pas par son nouveauté, il approfondit très profondément ses thèmes déjà exprimés. Il y a Banlieue Rouge, dans lequel, comme à chaque fois qu’il parle d’un personnage marginal, mêlant le cynisme à une sorte de tendresse abrupte, il puise au sommet de son art. Il s’agit précisément d’une veuve d’âge moyen, au bord de la pauvreté, dont la seule consolation est la radio, les chats et les poissons rouges avec lesquels il parle et qui la nuit « se sent bouger » sans arrêt, qui n’a ni espoirs ni désirs mais seulement une sorte de déception féroce qu’il est incapable de se transformer en colère, puisque « Elle dit qu’en tout cas / Elle aime pas les humains / Pourtant ell’ a mis l’bon dieu / Juste au-dessus d’son paddok / Elle y croit si tu veux / Mais c’est pas réciproque / … » Il y a Oscar, portrait prodigieux du grand-père mineur dans les carrières du nord, emblème du prolétaire hyperpolitisé dans les rangs du parti et du syndicat, exploité puis jeté comme un citron pressé par les patrons, mais qui conserve une force intérieure avec laquelle il traverse une existence difficile, jusqu’à « Il est parti comme disent les poètes / Y s’est pas envolé comme disent les curés / Un matin d’décembre d’un cancer tout bête / L’a cassé sa pipe il a calanché… ». La chanson, habituellement dépourvue de fioritures et d’artifices rhétoriques, dépourvue de toute fin morale de conte de fées, se distingue précisément par une sorte de cynisme fier qui la fait atteindre le frisson de l’éternité de la vie réellement vécue. La Blanche, où l’on prend une position très dure contre l’héroïne, est le récit d’un dialogue avec un vieil ami devenu toxicomane, mené au bord d’une ironie amère et tendre (…Paraît qu’ta gonzesse / S’est barrée avec ta caisse / Paraît qu’ tu bandais plus / Pour sa gueule pour ses fesses / Tu veux que j’te dise ? / T’étais trop bien pour elle / Comment ça j’ironise ? / Mais non j’suis pas cruel…) qui cache à peine la colère laissée exploser dans le final (…Mais si j’croise ton dealer / J’y fous dans l’cœur / Un coup d’surin de la part d’un copain / Ça risque d’être dur / Vu que c’t’ordure / Un cœur ça m’étonnerait qu’il en ait un…) La chanson Manu est aussi merveilleuse, une sorte de dialogue avec lui-même – Manuel est le deuxième prénom de Renaud – sur le caractère éphémère de l’amour, et sur la difficulté de gérer un cœur brisé en le conciliant avec une apparence « dure » en blouson de cuir et des tatouages.

Le succès toujours croissant, disions-nous, a amené Renaud à se produire sur la scène de l’Olympia (spectacle documenté sur disque), et il l’a fait en nous apportant les chansons les plus hard de son répertoire, en ouverture avec Où c’est qu’j’ai mis mon flingue ?, tirant sur le public, vraisemblablement composé d’étudiants de gauche, une satire très violente sur les garçons à papa qui deviennent soudainement révolutionnaires à l’université, mais qui, finalement, étudient comment perpétuer une culture bourgeoise : « Étudiant / Poil aux dents / J’suis pas d’ton clan pas d’ta race /…/ Y vient d’l’école de la rue / Et y salit ma godasse / Étudiant en droit / Y’a plus d’fachos dans ton bastion / Que dans un régiment d’paras /…/ Demain c’est toi qui viendras / Dans ta robe ensanglantée / Pour faire appliquer tes lois / Que jamais on a votées /…/ Étudiant en médecine / Tu vas marner pendant sept ans / Pour être marchand d’pénicilline /…/ La médecine est une putain / Son maquereau c’est l’pharmacien /…/ Qu’leur culture nous fait gerber / Qu’des étudiants respectables / Espère un jour diriger / En traînant dans leurs cartables / La connerie de leurs aînés » et ainsi de suite. Les arrangements, résolument rock (l’album est d’ailleurs bien mieux enregistré que le précédent live), donnent à ces couplets un air encore plus sauvage et agressif. La phase violente – dirions-nous la plus liée à son passé de militant anarchiste – de la carrière de Renaud a, même formellement, atteint son apogée. À ce stade, le risque est celui de se transformer en sketch répétitif de l’auteur-compositeur-interprète en colère, mais nous verrons que, sans rien nier, le encore très jeune Séchan a d’autres flèches à son arc.

 

Source : SguardoMobile