Dal 1988 quasi fino ad oggi
martedì 18 novembre 2003, di Alessio Lega
La terza parte della panoramica di Alessio Lega sullo straordinario percorso artistico di Renaud Séchan, ci porta alle soglie del suo ultimissimo, trionfale album, quel Boucan d’enfer del quale si tornerà a parlare.
Per riallacciare il discorso con il resto di questo viaggio, la prima parte (periodo 1975-1981) si trova qui e la seconda (1981-1988) qui.
La bibliografia critica su Renaud comincia ad assumere proporzioni elefantiache, con monografie di impianto strutturalista e tesi in lingua danese. Per averne un’(ottima) idea, si può andare qui, dove sono repertoriati tutti i materiali diponibili (questo compreso) sul gavroche in questione.
Mentre qui (www.sharedsite.com/hlm-de-renaud/ecole/enseignant) si trovano strumenti pedagocici ben organizzati per gli insegnanti che volessero condividere la loro passione renaudiana con i propri studenti. lf
L’ANARCO-MITTERANDISTA
Dopo la tournée seguita a Putain de camion (1988) il fino ad allora infaticabile Renaud comincia a diradare le apparizioni discografiche, consacrandosi per altro ad una sempre intensa attività dal vivo e a progetti quali il ruolo di co-protagonista nel kolossal Germinal di Berry, che per la lunga permanenza nei luoghi in cui la vicenda (tratta dal capolavoro di Zola) è ambientata, frutterà anche l’incisione di un disco cantato nell’incomprensibile dialetto ch’timi (Renaud cante el’ Nord); ma, quasi a compensare la quantità ridotta di nuove canzoni, i due album degli anni novanta saranno decisamente memorabili.
Marchand des cailloux si apre con la canzone omonima, su un indiavolato reele irlandese, è ancora una volta un bimbo (Lolita?) a fare domande a cui è difficile dare risposte (Dimmi papà quando passa/il mercante di pietre?/…/Perché i bambini di Belfast/e di tutti i ghetti/quando lanciano una pietra/poi gli fanno la pelle/credevo che la storia di Davide e Golia/ funzionasse ancora/che i più piccoli potessero battersi/ senza essere i più morti…) questioni che è imbarazzante persino porsi (…perchè c’è gente che muore di fame/mentre soffochiamo/davanti alla tele come cretini/sotto tonnellate di cibo?…), ma che attraverso la bocca di un bambino ritornano alla loro ineludibilità radicale, alla condanna imprescrittibile che le risposte a tali domande ratificano al nostro stile di vita, alla nostra indifferenza (…non è per fare il comunista/o essere un vero cristiano/queste son parole, me ne fotto/è solo per sentirmi un essere umano…).
L’Aquarium è un’altra grande canzone, in cui passando in rassegna i moderni persuasori occulti: televisione, radio, giornali, si decide che è meglio disfarsene gettandoli dalla finestra, con la buona opportunità di fracassare la testa a qualche generale, cardinale o quant’altro, di passaggio (Renaud abita nel centralissimo Boulevard Montparnasse); non si risparmiano critiche nemmeno ai gauchistes di Liberation (il quotidiano più importante della sinistra francese) «…diventati padroni più grossi…».
P’tit Voleur, con un richiamo al «realisme» delle prime canzoni, ispirate da Bruant, ma molto più moderna e credibile negli esiti, segue la carriera di un «ladro di polli», di un ragazzino ormai incastrato in una trappola sociale, che ha come unica via di fuga il suicidio («…tre piccoli salti e se ne vanno i delinquentelli…»).
Olè singolare canzone in cui un testo violentemente satirico, che descrive l’inania delle turiste francesi in Spagna a caccia di emozioni forti e sanguinose, corride e toreri, contrasta con una musica esangue, bellissima e ampia; coglieremo peraltro qui l’occasione di ricordare come, da Mistral gagnant in poi, Renaud si faccia in gran parte scrivere le melodie delle canzoni da collaboratori, solitamente gli stessi musicisti che lo accompagnano dal vivo o in disco (J.P. Bucolo, J.L. Roques, F. Langolff…), riservandosi la composizione del solo testo, metodo di lavoro che gli ha consentito un considerevole ampliamento di stili e ritmi musicali.
C’est pas du pipeau è una delle canzoni dedicate alla figlia in cui vengono rivalutate le fissazioni infantili, screditate come stupidate da un mondo di adulti: fai pure attenzione a non calpestare le linee fra mattone e mattone (…sennò è l’inferno, arciassicurato/sennò è sfiga per l’eternità…), sarai sempre meglio degli adulti che vanno avanti senza mai guardare dove camminano, senza porsi il problema di non calpestare chi si trovi per caso o per sventura ai loro piedi («…non sono storielle/non sono fesserie/attenta a non seguire mai il gregge»).
Tonton, è l’inno dell’anarco-mitterandismo: una bella composizione, lenta e maestosa, scritta negli anni in cui Mitterand, allo stremo delle forze, vecchio e malato, combatteva contro gravissime accuse di corruzione fatte alla sua amministrazione, tentando di garantire un futuro alla sinistra di governo francese. Bisogna anche rimarcare che il testo sfiora l’agiografia, un monumento eretto prima del tempo, e, se resta una bella prova di scrittura, dispiace per una certa ambiguità rispetto a tante sfide che l’autore ha lanciato a ogni potere costituito; aggiungeremo che nel contempo Renaud tiene alcune rubriche fisse sul giornale satirico Charlie Hebdo, poi raccolte anche in volume sotto il titolo di «Envoiée especial de moi meme».
A la belle de mai
Nel 1994 una nuova raccolta di canzoni inedite di Renaud, e ancora una volta si conferma l’altezza della sua scrittura; A la belle de mai, uscito per altro in una singolare e simpatica confezione, è uno scrigno: c’è C’est quand qu’on va ou? (una sgrammaticatura per dire all’incirca «Quando andiamo e dove?») in cui si prende posizione contro una scuola che non forma alla vita, non prepara ad affrontarla e si spende e fa spendere soverchie energie nel mantenimento di una disciplina che è solo forma: «Mi sono sciroppato 150 righe/«non devo parlare in classe»/ne ho abbastanza della disciplina: è schifosa/e non ero nemmeno io che parlavo: rispondevo a Arthur/che mi chiedeva in inglese come si scrive: NO FUTURE/…/pensi che non sia una sfiga/ogni giorno alla catena/…/con i compiti a casa ho la mia settimana di 60 ore/non solo del tutto gratis/ma anche per finire disoccupato…»
Ancora un bambino che parla, sempre con l’immutata capacità di vedere i grandi temi della vita -in questo caso la scuola- dalla parte delle vittime, tenero e impietoso, Renaud va avanti su una melodia dalle reminiscenze Chopiniane, fino alla conclusione «…Se le elezioni cambiassero sul serio la vita/allora -mio capitano- votare sarebbe proibito./Così se la scuola rendesse/gli uomini liberi e uguali/il governo decreterebbe che non va bene per i marmocchi./Se la pensi un po’ come me allora dì ’Alt a tutto!’/rispondi papà: quando andiamo e dove?»; c’è una bella parodia in canzone dei film americani sugli eroici policeman giustizieri della notte: La ballade de Willy Brouillard (dove Brouillard in italiano suona «Nebbia»), in cui un poliziotto di periferia del tutto inane e pigro deve far passare il turno di notte, possibilmente senza grosse rotture di palle, lui che aveva la vocazione del cavalleresco difensore di vedove e bambini invece «protegge lo stato e i padroni»; ci sono le riflessioni sul divenire vecchio in Cheveau blanc («Capello bianco»), e una piccola «400 colpi in canzone»: Le sirop de la rue. C’è un delizioso divertissement in cui s’immagina Lolita, ormai in età, cercare di ingraziare al padre il proprio «moroso» Mon amoreux il quale «…è bello/somiglia a te sulle tue vecchie fotografie/…/disegna, lo diresti Hugo Pratt…» e sopratutto «…si è fatto tatuare Che Guevara sul braccio…»; e c’è l’ennesimo passaggio del testimone dei valori alla figlia (Lolito, Lolita): «Dove vai ragazzo, ragazza/Lolito, Lolita?/…/in questa grande piramide/in cui i più non hanno niente/…/rovescia la piramide/metti la testa in giù/…/ma ci saranno sempre Bastiglie da far cadere/Lolita: gli uomini sono molto peggio dei topi.».
«Questa canzone è una canzone fuori moda, non d’attualità, passata» ha detto Renaud presentando Son bleu in concerto «perchè rende omaggio alla classe operaia e alle tute blu del lavoro!»: è la storia di un’operaio che si trova la notte, insonne, a riflettere sulla sua vita, sull’inutilità delle proprie braccia, del sudore con cui negli ultimi trent’anni, ha innaffiato la scala di valori che, lavoro stesso in cima, è franata con la chiusura della fabbrica e il conseguente licenziamento; l’operaio richiama -riattualizzandola ai nostri tempi- una figura simile all’Oskar, lo zio minatore di una canzone precedente di cui si è già parlato in questa panoramica: l’inossidabile comunista che ha guardato con sospetto e condiscendenza alle scelte libertarie del figlio che voleva «…far saltare tutto questo…», e che nell’impossibilità di vivere in piena coerenza con le proprie scelte ideologiche è emigrato per combattere in Nicaragua affianco ai sandinisti; salutando il padre il ragazzo aveva detto «…ciao povero vecchio/sarai per sempre uno schiavo…» e il vecchio ora pensa «…ebbene vedi ragazzo/oggi non sono più nulla…» perché la fabbrica «…é saltata da sola/senza dolore né grida…»; il vecchio tasta la sua tuta blu, la gamella, le bandiere rosse del «suo» Lenin, il giornale di quel partito che non ha saputo difenderlo, tutta la panoplia del suo passato di lavoratore e militante e in uno scatto d’orgoglio ringrazia idealmente il figlio, che combatte anche in suo nome «merda agli uomini e merda a Dio/dice ripiegando la tuta blu/ragazzo mio avevi ragione tu/la vera felicità è fare saltare tutto questo». La canzone, oltre ad essere una delle punte di diamante di questo disco e di tutta l’opera di Renaud, è in assoluto uno dei momenti più intensi dell’intero canzoniere sociale internazionale, e si pone al perfetto incrocio fra la disperazione per un tempo da vivere troppo dissimile dagli ideali di solidarietà e di rispetto per il lavoro, e l’indisponibilità a barattare le proprie idee, forse perdenti, ma giuste, con un sistema di valori fondato sul più osceno profitto.
Il disco si chiude con una piccola canzone antimilitarista di grande effetto: su una statua inopinatamente eretta a un maresciallo di Francia, bambini incontinente pisciano, ubriachi vomitano e piccioni decorano con una «…gastrica offesa…» come se la natura stessa inconsapevole e innocente ricordasse che «…marescialli assassini/sui vostri busti tesi/e i petti superbi/le vostre medaglie non sono/che cacca di piccione/che merda…».
L’anno dopo è la volta di un’altro album la vivo che documenta uno splendido concerto nel piccolo teatro della Mutualité di Parigi (disponibile anche in video) e alcuni episodi della tournèe in provincia. Gli arrangiamenti sono curatissimi, anche per la presenza di una nutrita orchestra sul palco che affianca discretamente il brillante ensemble acustico, Renaud canta al massimo delle sue possibilità, con questa voce gradevolmente pourrie («marcia»), e l’ambiente è caldo e in perfetta sintonia con l’artista, consentendo la giusta e partecipata esecuzione delle canzoni tenere come di quelle dure, la scelta inoltre, pur privilegiando l’ultimo album, poco tralascia dei capolavori di questa densa carriera, quasi tutti, peraltro in esecuzioni più belle che l’originale: un’ottima introduzione -per chi volesse- all’opera dell’artista.
Sempre nel 1995 esce Renaud chante Brassens, disco interamente consacrato all’interpretazione dei pezzi del grande maestro; aderente in maniera quasi filologica ai canoni esecutivi originali (tanto da impiegare persino una chitarra appartenuta allo stesso Brassens), il disco è ovviamente cantato in maniera molto renaudiana, con tutti i vezzi tipici del nostro, ma trasuda una dedizione quasi commovente allo spirito dello «Zio Georges». La potente vena anarcoide e anticlericale, il gusto della parolaccia detta bene, il profondo spirito di comprensione e il sentimento popolare, ma non popolaresco, l’amore per la poesia portata in strada, sono senz’altro grandi punti di contatto fra i due, purtroppo il sottile, ma ineludibile rigore formale, vero pilastro dell’edificio Brassens, la varietà ritmico/armonica, la bellezza e ricchezza imprendibile delle melodie, solo apparentemente celata sotto la povertà dell’accompagnamento, sono criteri unici e irripetibile dell’arte dell’autore, e di Brassens ce n’è uno solo…
Traduction française par Google |
Renaud : L’anarcho-mitterrandiste
De 1988 jusqu’à presqu’aujourd’hui
Mardi 18 novembre 2003, par Alessio Lega
La troisième partie du panorama d’Alessio Lega sur l’extraordinaire parcours artistique de Renaud Séchan nous emmène au seuil de son dernier album triomphal, ce Boucan d’enfer dont nous reparlerons.
Pour relire la discussion sur ce parcours, la première partie (période 1975-1981) est à retrouver ici et la seconde (1981-1988) ici.
La bibliographie critique sur Renaud commence à prendre des proportions éléphantesques, avec des monographies structuralistes et des thèses en danois. Pour vous faire une (excellente) idée, vous pouvez vous rendre ici, où sont répertoriés tous le matériel disponible (dont celui-ci) sur la gavroche en question.
Vous trouverez ici (www.sharedsite.com/hlm-de-renaud/ecole/enseignant) des outils pédagogiques bien organisés pour les enseignants qui souhaitent partager leur passion renaudienne avec leurs élèves.
L’anarcho-mitterrandiste
Après la tournée qui suivit Putain de camion (1988), Renaud, jusqu’alors infatigable, commença à réduire ses apparitions en enregistrement, se consacrant à une activité live toujours plus intense et à des projets tels que le rôle de co-protagoniste dans le blockbuster Germinal de Berry, qui devait au long séjour dans les lieux où se déroule l’histoire (tirée du chef-d’œuvre de Zola), il donnera lieu également à l’enregistrement d’un disque chanté dans l’incompréhensible dialecte Ch’timi (Renaud cante el’ Nord).
Mais, comme pour compenser la quantité réduite de nouvelles chansons, les deux albums des années 90 seront décidément mémorables.
Marchand des cailloux s’ouvre sur la chanson du même nom, sur un rythme irlandais sauvage, c’est encore une fois une enfant (Lolita ?) qui pose des questions auxquelles il est difficile de répondre (Dis Papa, quand c’est qu’y passe/Le marchand d’cailloux/J’en voudrais dans mes godasses à la place des joujoux/Avec mes copines en classe on comprend pas tout/Pourquoi des gros dégueulasses font du mal partout?/Pourquoi les enfants de Belfast et d’tous les ghettos/Quand y balancent un caillasse, on leur fait la peau?/J’croyais qu’David et Goliath, ça marchait encore/Les plus petits pouvaient s’débattrent sans être les plus morts…), des questions qui sont même gênantes à poser (…Pourquoi des mômes crèvent de faim pendant qu’on étouffe/Devant nos télés, comme des crétins sous des tonnes de bouffe?...), mais qui reviennent par la bouche d’enfant à leur inéluctable radicalité, à la condamnation imprescriptible que les réponses à de telles questions entérinent à notre mode de vie, à notre indifférence (…Est-ce que c’est ça être coco ou être un vrai chrétien?/Moi j’me fous de tous ces mots, j’veux être un vrai humain…).
L’Aquarium est une autre grande chanson dans laquelle, passant en revue les persuasifs occultes modernes : télévision, radio, journaux, on décide qu’il vaut mieux s’en débarrasser en les jetant par la fenêtre, avec la bonne occasion de fracasser la tête de certains. général, cardinal ou autre, de passage (Renaud habite le boulevard Montparnasse, très central). Même les gauchistes de Libération (le journal le plus important de la gauche française) « …Devenus des patrons bien gros… » ne sont pas épargnés par les critiques.
P’tit Voleur, en référence au « réalisme » des premières chansons, inspiré de Bruant, mais beaucoup plus moderne et crédible dans ses résultats, suit le parcours d’un « voleur de poules », d’un garçon désormais coincé dans un milieu social. le piège, qui a le suicide comme seule issue de secours («…Trois p’tits tours et pi s’en vont…»).
Olé est chanson singulière dans laquelle un texte violemment satirique, qui décrit l’inanité des touristes français en Espagne en quête d’émotions fortes et sanglantes, de corridas et de toreros, contraste avec une musique exsangue, belle et expansive ; on en profitera aussi ici pour rappeler comment, à partir de Mistral gagnant, Renaud fait en grande partie écrire les mélodies de ses chansons par des collaborateurs, généralement les mêmes musiciens qui l’accompagnent en live ou sur disque (J.P. Bucolo, J.L. Roques, F . Langolff…), se réservant la seule composition du texte, méthode de travail qui lui a permis une expansion considérable des styles et des rythmes musicaux.
C’est pas du pipeau est une des chansons dédiées à la fille dans laquelle les fixations de l’enfance sont réévaluées, discréditées comme stupides par un monde d’adultes : attention à ne pas marcher sur la frontière entre brique et brique (…Sinon c’est l’enfer/Archi assuré/Sinon c’est galère/Pour l’éternité…), tu seras toujours mieux que des adultes qui avancent sans jamais regarder où ils marchent, sans se poser le problème de ne piétiner personne qui leur arrive être à leurs pieds par hasard ou par malheur (« …C’est pas des histoires/C’est pas du pipeau/Fais gaffe à la mine/Près du caniveau.»).
Tonton, est l’hymne de l’anarcho-mitterrandiste : une belle composition, lente et majestueuse, écrite dans les années où Mitterrand, à bout de forces, vieux et malade, luttait contre de très graves accusations de corruption portées contre son administration, tenter de garantir un avenir à la gauche du gouvernement français. Il faut aussi noter que le texte frise l’hagiographie, un monument érigé avant l’heure, et, s’il reste une belle écriture, on peut regretter une certaine ambiguïté quant aux nombreux défis que l’auteur a lancés à chaque pouvoir établi. Ajoutons qu’en même temps Renaud tient quelques chroniques régulières dans le journal satirique Charlie Hebdo, plus tard également rassemblées dans un volume sous le titre « Envoyé spécial chez moi ».
A la belle de mai
En 1994, un nouveau recueil de chansons inédites de Renaud, et une fois de plus la hauteur de son écriture se confirme. A la belle de mai, sorti dans un coffret unique et sympathique, est un coffre au trésor : il y a C’est quand qu’on va où ? (une manière agrammaticale de dire quelque chose comme « Quand allons-nous où ? ») dans laquelle on prend position contre une école qui ne forme pas une école pour la vie, ne prépare pas à y faire face et dépense et provoque une énergie excessive dépensé à maintenir une discipline qui n’est que forme : « Je m’suis chopé 500 lignes/« Je n’dois pas parler en classe »/Ras l’bol de la discipline/Y’en a marre c’est digoulasse/C’est même pas moi qui parlais/Moi j’répondais à Arthur/Qui m’demandait, en anglais/Comment s’écrit «NO FUTURE»/Si on est punis pour ça, alors j’dis « Halte à tout »/Explique-moi, Papa/ C’est quand qu’on va où?… »
Encore un enfant qui parle, toujours avec la capacité inchangée de voir les grands enjeux de la vie – en l’occurrence l’école – du côté des victimes, tendre et impitoyable, Renaud continue sur une mélodie qui rappelle Chopin, jusqu’à la conclusion : « Tu dis qu’si les élections ça changeait vraiment la vie/Y’a un bout d’temps, mon colon, qu’voter ça s’rait interdit/Ben si l’école ça rendait les hommes libres et égaux/L’gouvernement décid’rait qu’c’est pas bon pour les marmots./Si tu pense un peu comme moi, alors dis « Halte à tout »/Maintenant, Papa, c’est quand qu’on va où ? »
Il y a une belle chanson parodiant des films américains sur des policiers héroïques, justiciers de la nuit : La ballade de Willy Brouillard (où Brouillard sonne comme « Nebbia » en italien), dans laquelle un policier de banlieue complètement stupide et paresseux doit effectuer son service de nuit, peut-être sans grande douleur au cul, celui qui avait la vocation du chevaleresque défenseur des veuves et des enfants « Y protège l’Etat, les patrons ».
Il y a des réflexions sur le vieillissement dans Cheveau blanc, et un petit « 400 coups en chanson » : Le sirop de la rue. Il y a un délicieux divertissement dans lequel on imagine Lolita, désormais majeure, essayant de plaire à son père avec son « petit ami » Mon amoureux qui « Il est ‘achement plus beau
On dirait toi sur tes vieilles photos/…/Y dessine on dirait Hugo Pratt… » et surtout « …Il a tatoué Guevara sur le bras… »; et il y a encore un autre passage de relais des valeurs à la fille (Lolito, Lolita) : « Où vas-tu garçon ou fille/Dans ce monde-là ?/…/Dans cette grande pyramide/Où les plus nombreux n’ont pas/D’autre choix que cette vie de/Misère et d’effroi /…/Sans abri sans pain sans joie/La pyramide les broie/Lolita/…/Puis vient le prolétariat/Lolito Lolita/Des millions de petits bras/Une armée de forçats. »
« Cette chanson est une chanson d’antan, pas une chanson actuelle, une chanson passée » disait Renaud en présentant Son bleu en concert « car elle rend hommage à la classe ouvrière et aux salopettes bleues du travail ! » : c’est l’histoire de un travailleur qui passe la nuit blanche à réfléchir sur sa vie, sur l’inutilité de ses propres bras, sur la sueur avec laquelle au cours des trente dernières années il a arrosé l’échelle des valeurs qui, avec le travail lui-même au sommet, s’est effondrée avec la fermeture de l’usine et le licenciement qui en a résulté. L’ouvrier rappelle – en l’actualisant à notre époque – une figure semblable à Oskar, l’oncle mineur d’une chanson précédente dont on a déjà parlé dans cet aperçu : le communiste convaincu qui regardait avec suspicion et condescendance les choix libertaires de son fils qui voulait « …faire péter tout ça… », et qui, incapable de vivre en pleine cohérence avec ses propres choix idéologiques, a émigré pour combattre au Nicaragua aux côtés des sandinistes ; en saluant son père, le garçon avait dit « … Salut pauv’ cave/Tu s’ras toujours un esclave… » et le vieil homme pense maintenant « …Eh ben tu vois gamin/Aujourd’hui j’suis plus rien… » parce que l’usine « …Ça a pété sans lui/Sans douleur et sans cris… ». Le vieil homme sent sa salopette bleue, sa gamelle, les drapeaux rouges de « son » Lénine, le journal de ce parti qui n’a pas su le défendre, toute la panoplie de son passé d’ouvrier et de militant et dans un élan d’orgueil il remercie idéalement le fils, qui se bat aussi en son nom « Merde aux hommes et merde à Dieu/Il dit en raccrochant son bleu/Mon enfant a compris mieux que moi/Le bonheur de faire péter tout ça ». La chanson, en plus d’être l’un des moments forts de cet album et de toute l’œuvre de Renaud, est absolument l’un des moments les plus intenses de tout le recueil social international, et se place à la croisée parfaite entre le désespoir d’un temps de vivre aussi à la différence des idéaux de solidarité et de respect du travail, et du refus d’échanger ses idées, peut-être perdantes, mais justes, avec un système de valeurs basé sur le profit le plus obscène.
L’album se termine par une petite chanson antimilitariste de grand effet : sur une statue inopinément érigée d’un Maréchal de France, des enfants incontinents pissent, des ivrognes vomissent et des pigeons décorent d’un « …D’une gastrique offense… » comme si la nature elle-même inconscient et innocent, il se souvint que « … Maréchaux assassins/Sur vos bustes d’airain/Vos poitrines superbes/Vos médailles ne sont/Que fientes de pigeons/De la merde… ».
Source : SguardoMobile